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      Si diedero convegno per la sera stessa all’osteria di Zi’ Pippo.
      Non appena uscito il garzone, Macchia si accovacciò nella mangiatoia e attese.
      La scuderia era illuminata da una lampada appesa alla volta nel mezzo, munita di un grande cappello a riverbero, che spandeva la luce nella parte dove stavano i cavalli. Il posto dove stava appiattato il macellaro era immerso nell’oscurità più profonda.
      Macchia non aspettò di molto. La porta si aperse pian piano e il cocchiere entrò munito di una di quelle piccole lanterne ad occhio di bue che spandono un fascio di raggio innanzi a sé, lasciando nell’ombra la porta. Diede un’occhiata ai cavalli, quindi salì i pochi gradini che menavano al camerino di guardia e vi penetrò lasciando la porta socchiusa.
      Passarono cinque minuti, che al marito oltraggiato parvero cinque secoli, si udì un lieve scricchiolìo alla porta e comparve Rosa nel suo provocante costume, più scollato del consueto. Non appena ebbe posto piede sul primo gradino, l’uscio del camerino s’aprì e la formosissima donna fu investita tutta quanta dalla luce dell’occhio di bue.
      Impossibilitato a frenarsi più oltre Giuseppe Macchia balzò fuori dal suo nascondiglio armato del suo palo e menò un colpo terribile al capo della balia. Rosa cadde mandando un acutissimo grido e più non si mosse. Intanto il tradito si lanciava nel camerino del cocchiere, ma questi si era buttato giù dalla finestra, verso la corte, alta pochi metri dal suolo.
      Il grido richiamò alla scuderia i domestici, il portiere ed altre persone di servizio, che trovarono la balia col capo fracassato e morente.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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