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      Ma anche la venustà della fanciulla sulla quale aveva posti gli sguardi era una pretesa al disopra dei suoi meriti. Doveva dunque essere, necessariamente, molto corrivo per quanto concerneva il di lei passato e proporsi di chiudere un occhio anco per l’avvenire.
      Ed è precisamente quello che egli aveva fatto.
      Le sue frequenti assenze dal paese erano una fortuna, sulla quale Michelina, sposandolo, aveva fatto assegnamento.
      I primi tempi del matrimonio passarono per entrambi tranquilli. La moglie vinceva coraggiosamente la ripugnanza che la bruttezza del marito le ispirava, e questi, per ripagarla dei godimenti che ne traeva, oltre al mostrarsi molto indulgente con lei, largheggiava nelle spese. Michelina approfittava generosamente d’una cosa e dell’altra. Si trattava con lautezza, per quanto concerne il vitto, vestiva con relativo lusso, non faceva mai nulla di nulla, e si era procurata una folla di cugini, che le allietavano gli ozi.
      In breve Domenico si ebbe conquistata la fama d’essere il più grande, fortunato e contento marito cornuto dell’umanità.
      Ma l’appetito vien mangiando, come si suol dire, e presto il trattamento del marito parve a Michelina troppo scarso. Pensò che gli amanti di cuore se le fruttavano molte gioie fisiche, non gliene procuravano punto di morali, e cominciò a trar profitto della sua libera vita.
      Una sera, ritornando prematuramente a casa da uno de’ suoi consueti viaggi, trovò Domenico la sua diletta sposa a cena con un grasso e grosso curato. La tavola era fornita d’ogni ben di Dio.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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