L’inverno, di sera, mentre la famiglia era adunata nel tinello e gli altri chiacchieravano o si occupavano delle cose domestiche, leggeva. E spesso se ne andava a letto portandosi un libro e continuava a leggere per parecchie ore. Nella buona stagione se ne andava a diporto per la campagna, s’internava nella macchia e trovato qualche posto, ove poteva starsene a proprio agio, si adagiava sui tappeti erbosi, o su qualche masso coperto di muschio, e leggeva.
Alle amiche che la rimproveravano della sua selvatichezza, rispondeva invariabilmente, ch’ella amava più di vivere in compagnia de’ personaggi ideali de’ suoi libri, che in quelli della gente di questo mondo. Pure qualche volta si acconciava a raccontar loro le storie dei romanzi che aveva divorati, e allora favellava d’amore, come avrebbe potuto farlo una fanciulla innamorata, suscitando così il sospetto, che covasse qualche passioncella segreta. Ma poi dovevano persuadersi che non era vero, e il loro stupore cresceva.
LXIX.
I misteri romantici della macchia.
Sullo scorcio di una giornata d’agosto Geltrude che aveva passato tutto il dopopranzo nella macchia, leggendo, s’avviava a casa, quando sentì uno scricchiolìo di fronde calpestate poco distante da lei. Si volse e si trovò faccia a faccia con un giovinotto alto e biondo vestito da cacciatore. Portava un abito di fustagno verde, alte uose di cuoio, un cappello a cencio, e il fucile attraverso le spalle.
- Scusate, bella ragazza - le disse, l’incognito - mi sono sperduto nella macchia, vorreste essere tanto gentile da insegnarmi ad uscirne?
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Geltrude
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