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      Geltrude arrossì fin nel bianco degli occhi, vinta da un’emozione nuova.
      Il cacciatore aveva degli occhi cilestrini, una voce insinuante e dei portamenti non volgari.
      - Non siete né del paese, né dei dintorni? - si arrischiò a domandargli la fanciulla.
      - No. Sono romano e poco pratico di questa plaga; mi hanno detto che abbonda la selvaggina in queste macchie e ci sono venuto. Disgraziatamente il mio cane si è azzoppato per un pruno che gli è entrato in una zampa e ho dovuto lasciarlo all’osteria.
      - Scendendo per la macchia tre tratti di fucile, troverete a manca un sentiero traversale che conduce alla strada maestra.
      - Grazie mille. Ma voi, perdonate, non seguite la stessa strada?
      - No, io sono di Monteguidone, che si trova a un quarto d’ora dalla macchia e devo risalirla per giungervi.
      - Peccato. Avrei fatto tanto volentieri la strada in vostra compagnia.
      - Vi allontanereste di troppo dalla vostra meta e non vi converrebbe perché si approssima la sera... Le strade sono malsicure, specie pei forastieri.
      - Val bene la pena di scomodarsi un poco per intrattenersi con una bella fanciulla, come voi, ed anco di correre qualche rischio.
      Geltrude a tali parole si sentì ancora più calde le vampe al volto e volendo troncarla rispose:
      - Addio, signor cacciatore.
      E affrettando il passo si allontanò. Ma non seppe resistere alla tentazione di volgersi indietro, per vedere se l’incognito seguiva le sue indicazioni. Egli era invece sempre là, fermo al posto dove l’aveva lasciato, colle braccia incrociate sul petto e l’occhio intento a lei.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Monteguidone