LXXI.
Matrimonio per ripiego.
Da quel dì fatale Geltrude subì una trasformazione. Alla giocondità consueta, successe in lei una malinconia dolce e soave. Amava il consorzio de’ suoi genitori come per l’addietro, ma passava delle intere giornate sola nella sua camera. Le sue assenze si facevano più frequenti e più lunghe.
Ella s’era data pienamente in balìa della passione che l’aveva travolta, e i suoi amori con Enrico continuavano più ardenti che mai. Ma l’inverno si avvicinava. I convegni nella macchia diventavano impossibili, e per lo meno ingiustificabili. E già più d’una volta i due amanti favellando avevano dovuto trattare lo spinoso argomento della separazione, senza nulla concludere.
- Enrico, disse finalmente la fanciulla, al cacciatore, tu mi hai detto che non potevi pensare al matrimonio, vorresti confessarmene il perché, francamente, schiettamente? Io non ho alcun rimprovero a farti. Mi sono data a te senza patti, senza condizioni, perché così la sorte ha voluto. Parla, sono pronta a tutto.
- Perché rammaricarci?
- Parla Enrico. Ho abbastanza forza per udire la verità e coraggio per sopportarla. Forse sei...
- Lo vuoi assolutamente sapere?
- Lo voglio.
- Ebbene, sì, sono...
- Dillo.
- Sono ammogliato.
Geltrude chinò il capo sul seno e stette per alcuni istanti assorta in meditazione. Enrico non osava distoglierla. Quando ebbe a lungo riflesso e parve aver presa una determinazione; si alzò e tendendo la mano all’amante, gli disse con ferma voce:
- Tutto è finito. Enrico addio. Dimenticami, se puoi; io non ti dimenticherò mai.
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