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      Il cacciatore le strinse la mano portagli, la baciò e ribaciò, la rigò di lagrime, ma non disse verbo.
      E così si lasciarono.
      Tre mesi dopo gli abitanti di Monteguidone erano sorpresi da una grande notizia. Geltrude Pellegrini si faceva sposa di un ricco bottegaio romano sulla quarantina.
      Le nozze si celebrarono con grande pompa e solennità. Dodici ragazze del paese, in bianchi vestiti, l’accompagnarono all’ara. Dalla casa alla chiesa fu una processione. Le finestre delle case per le quali passava il corteo erano addobbate e piovevano sovr’esso freschi fiori; le campane suonavano a festa. La gente si affollava sul passaggio. Vi fu distribuzione larga di denari e di derrate ai poveri. Nella casa del vecchio massaio ebbe luogo un sontuoso banchetto e levate le mense si ballò.
      La sposa appariva palliduccia, ma pur sempre bella. Lo sposo era raggiante di felicità. E di quegli sponsali rimase la tradizione nel paese.
      Compiuto il viaggio di nozze Geltrude Pellegrini e suo marito si stabilirono in Roma e la loro vita consuetudinaria incominciò e continuò tranquilla e serena. Toto era innamorato di sua moglie, e le riservatezze di questa non facevano che alimentare la sua passione, la quale si traduceva in gentilezze, cure e prodigalità infinite.
      Non tardarono i vagheggini a farsi intorno all’avvenentissima donna, come già si erano fatti intorno alla leggiadra fanciulla, ma inutilmente, Geltrude si mostrò insensibile a qualsiasi seduzione e seppe frenare le audacie dei più intraprendenti, senza suscitar scandali e senza compromettere il marito o le faccende del negozio, nelle quali in breve diede mostra di accorgimento e di un tatto non comune.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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