Geltrude si vestì colla consueta eleganza, ma senza sfarzo di ninnoli e di gioie, uscì e si trovò, quasi senza saperlo, forse senza volerlo, sulla gradinata di San Pietro. Sulla porta del tempio Enrico l’attendeva. Che si dissero?
Una sola cosa. Enrico era libero di sposarla. Geltrude non era più tale. Apparteneva ad un altro uomo. Enrico l’amava sempre disperatamente, come il primo giorno che l’aveva veduta. Geltrude non lo amava meno, ma non aveva avuto il coraggio d’attendere. L’ostacolo insormontabile alla loro felicità l’aveva creato lei. Avrebbero continuato una relazione clandestina? Perché allora l’avevano interrotta, spezzata anzi violentemente a Monteguidone?
Usciti dal tempio erano saliti a Monte Mario e Roma cominciava già ad avvolgersi nei vapori del tramonto quando si decisero di scendere. Enrico accompagnò la bella, ormai decisa al peccato, fino a Ponte Sant’Angelo, e Geltrude rientrò in casa pochi minuti prima di suo marito.
- Sei uscita oggi? - le domandò.
- Ho passata la giornata a Monte Mario: avevo bisogno di prendere un po’ d’aria.
- Hai fatto bene. Ora ti senti meglio?
- Sto benissimo.
Cenarono allegramente e coricatisi presto, fu Gertrude prodiga di sé al marito più assai, e più intensamente del consueto. Ma a chi volava il suo pensiero?
Toto ne fu felice e beato. Tanto è vero che la felicità è relativa.
I convegni fra i due amanti si moltiplicarono; ma furono condotti colla massima cautela. Geltrude chiedeva spesso ad Enrico:
- Se fossi libera?
- Ti sposerei.
- Lasceresti Roma?
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