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      Giudicava pertanto naturale ch’essa avesse a toglier di mezzo l’altro. Quell’uomo, anziano, brutto, avea goduto anche troppo di lei. Non poteva dire di averla pagata troppo cara.
      Tali i pensieri dell’assassina, mentre compiva i preparativi della partenza.
      Raccolti tutti i suoi effetti preziosi, i denari che il marito aveva ritratti dalla vendita del negozio già effettuata, e i valori che possedeva, e messili in una valigia, che richiuse co’ suoi indumenti necessari e colla biancheria, mise il resto dei suoi effetti in un’altra valigia, e pian piano uscì, serrando la porta accuratamente.
      LXXV.
      Gli ultimi amplessi coll’amante dopo l’assassinio.
      Cominciava appena a far giorno, quando giunse a casa dell’amante, affaticata, stanca, anelante, ma sempre ebbra d’amore e smaniosa di gettarsi nelle braccia di lui.
      Sentendo bussare leggermente alla porta, Enrico si tolse dal letto e andò ad aprire, non sapendo ideare chi potesse a quell’ora cercarlo. Ma appena la vide, esclamò sorpreso e trasognato:
      - Geltrude!
      - Io.
      - Tu qui? A quest’ora? Come mai?
      - Lasciami portar dentro le valigie e lo saprai.
      - Le valigie?
      - Sì, ti sorprende?
      Il giovinotto aderì alla richiesta di Geltrude, perché non poteva crudelmente lasciarla sulla porta di casa. Ma quel carico che gli cascava improvvisamente sulle spalle non gli garbava di soverchio: lo preoccupava assai. Come tutti gli amanti, nel trasporto della passione aveva risposto affermativamente a tutte le domande della sua innamorata, benché gli sembrassero molto strane ed arrischiate; ma era ben lontano dal credere che quei propositi, scaturiti dall’ebbrezza, fra un bacio e l’altro, avessero a tradursi in fatto, e sopratutto a tradursi in fatto così sollecitamente.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Enrico Geltrude