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      L’istruzione della causa durò parecchio tempo, perché il giudice inquirente volle esaurire tutte le pratiche per rintracciare l’amante e per udirlo, quantunque apparisse evidente che non poteva aver avuto complicità alcuna colla Geltrude.
      Pronunziata sentenza di morte, la Pellegrini domandò i conforti religiosi e si chiarì contrita e devota, si mostrò rassegnata, ma coraggiosa e convinta d’aver meritata la pena inflittale.
      La mattina del 9 gennaio 1838, in cui ebbe luogo l’esecuzione, una emozione vivissima dominava in tutti gli animi di Roma. Il processo aveva destato un interesse grande, immenso; la fama della bellezza di Geltrude v’aggiungeva esca. La folla s’addensava compatta innanzi al carcere, e per tutte le vie, donde il sinistro corteo doveva passare, e sul teatro dell’esecuzione. Le finestre delle case erano gremite di curiosi, come le strade e d’ogni parte si appuntavano sulla carretta sguardi e cannocchiali.
      Giunta innanzi al palco, scese dal veicolo con fermo passo, in modesto, ma non avvilito atteggiamento. La bruna veste che aveva indosso, scendendo a larghe pieghe lungo la persona, dava risalto maggiore alle sue forme scultorie e aggiungeva una cert’aria di sentimentalità alla sua bellissima fisionomia. Era pallida, non abbattuta. Salì sicuramente i gradini del patibolo e dopo aver baciato il crocifisso, che le porgeva il confessore, mentre gli altri confortatori si ritiravano, porse il capo alla mannaia. Non appena fu caduto sotto il colpo della ghigliottina, afferrai per i capelli il capo della bellissima donna e sollevandolo lo mostrai alla folla attonita e commossa come non mi era mai accaduto di vedere.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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