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      Una bella sera Pietro riuscì a trarla in un canto del salone da giuoco, nella strombatura di una finestra, coperta dai cortinaggi, e l’afferrò per le mani.
      - Questa volta non mi fuggirete - le disse.
      - Che volete da me?...
      - Desidero una spiegazione.
      - Ed è perciò che mi usate violenza?
      - Lungi da me quest’idea.
      - Parlate allora.
      - Voi mi detestate?
      - Bella pretesa.
      - Come bella pretesa?
      - Detestarvi sarebbe una distinzione dagli altri ed io non voglio.
      - Neppure detestarmi?
      - No. Si comincia col detestare e si finisce coll’amare.
      - Detestatemi allora, ve ne scongiuro.
      - Per far capo all’altro termine.
      - All’amore.
      - All’amore? È precisamente ciò che non voglio.
      - La vostra virtù è dunque incrollabile.
      - Credete voi a quella goffaggine che si chiama la virtù?
      - La domanda è imbarazzante. Lasciate che io ci pensi. Vi risponderò questa sera, dopo cena se vi degnate di cenare con me.
      - Dove? qui?
      - No: da Lepri.
      - E sia.
      Due ore dopo Lalla e Pietro Tagliacozzo cenavano in un elegante salottino del celebre ristorante romano e i suoi intingoli facevano prodigi.
      Smessa la selvatichezza fino allora con arte soprana adoperata per meglio invischiare il merlotto, Lalla era diventata dolce, chiacchierina, espansiva. Pietro era raggiante di felicità, ma di una felicità relativa. Improvvisamente l’affascinante fanciulla passò un braccio intorno alla vita del poco studioso studente e accostando il proprio viso al viso di lui, quasi esortando a baciarla, gli domandò:
      - Mi sei debitore di una risposta: credi dunque alla virtù?


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
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