Un giorno, mentre se ne stava cogitabondo nel giardino di una osteria alla Lungara guardando il corso del vecchio fiume e pareva chiedesse alle bionde sue acque i segreti della storia, sentì toccarsi da una mano sulla spalla e una voce toneggiante che gli diceva:
- Mastro Titta, che nuove abbiamo? È un bel po’ che non si lavora... Ci annoiamo, non è vero? C’è ben di che.
Il Bugatti si volse al verboso interlocutore, sorpreso dalla famigliarità benevola che usava con lui, e gli domandò a sua volta:
- Mi conoscete dunque?
- Perfettamente. Vi ho veduto lavorare e vi so dire che a buon dritto vi compete il titolo di maestro. Ma che andiamo chiacchierando a bocca asciutta? Ho l’ugola secca. Mastro Titta vogliamo «farcene» una foglietta insieme?
- Benvolentieri, rispose il boia, traendo dal suo petto un sospiro di soddisfazione.
- Vedo che vi fa piacere e ne son lieto. Eh! Toto, portacene un boccale di frascatano. - È limpido, dolce e color del sole che ha scaldato i grappoli con cui è fatto - continuò poi, tornando a volgersi a Mastro Titta.
- Amate molto il vino, per quanto mi pare? - gli disse sorridendo il Bugatti.
- Credo bene! Amore e vino, il vecchio Lieo e le giovani Camene confortavano i tardi giorni di Anacreonte.
Questo linguaggio, poco comprensibile per lui, sorprendeva non poco Mastro Titta e si volse ad osservare il parlatore.
Pareva un operaio, poiché aveva le maniche della camicia rimboccate al disopra de’ gomiti, e portava dinanzi un grembiale turchino, sollevato a metà, per un de’ lembi infisso nella cintura.
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