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      Questo atto inconsulto gli fruttò due anni di galera e non lo sottrasse alla frustatura, la quale gli fu inflitta non appena risanato dalla ferita, circa 20 giorni dopo.
      XII.
      La tortura: Corda e Veglia.
      Ma ben più terribili e della frustazione ed anco della morte stessa era la tortura, che si applicava ai giudicandi per estorcere loro la confessione di veri o supposti delitti.
      Il padre Labat, un domenicano che viaggiò l’Italia in qualità di provveditore del Santo Uffizio ed assistè alle torture così dette della Corda e della Veglia, le ha descritte de visu e noi traduciamo le sue note, in argomento, dal testo francese, recato dall’Ademollo:
      «S’usano in Italia parecchi sistemi di tortura. Io ne ho veduti applicare di due sorta.
      La più comune è la corda. La chiamano la regina dei tormenti. E difatti è dolorosissima. Un uomo vi muore se lo si lascia sottoposto troppo a lungo; ne uscirebbe storpiato se si trascurassero le precauzioni necessarie, prescritte onde evitare tali conseguenze.
      Prima d’applicarla i medici e chirurghi visitano accuratamente il paziente per vedere se non ha né aperture, né ernie, né altri difetti congeneri, o disposizione a produrne, perché in questi casi si applica una tortura di altro genere, per evitare il pericolo che gli esca l’intestino e che soccomba per lo strangolamento che ne seguirebbe.
      Trovatolo capace a subire la corda, il disgraziato vien condotto nella camera della tortura.
      Il giudice accompagnato da alcuni assessori, dal cancelliere, dai medici e dai chirurghi, lo interroga sui particolari del fatto che si vuole chiarire, sia che l’imputato sia confesso o persista nella negativa la si applica.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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