Ma dopo un secolo e mezzo, abbiamo noi di molto progredito?
Se si badasse soltanto alle esteriori parvenze si dovrebbe rispondere affermativamente; ma se si esamina profondamente la questione si trova, che nella vantata civiltà odierna c’è, per quanto concerne questo doloroso argomento, un tessuto di ipocrisia.
La folla che assiste alla esecuzione di una sentenza di morte è un controllo, un freno ed una salvaguardia. Noi abbiamo veduto in queste pagine il popolo fremere e minacciare il carnefice maldestro, che faceva soffrire il paziente. Ma che ne sappiamo noi di ciò che avvenne nell’interno di un carcere, o di una torre, dove tutti coloro che vi assistono sono cointeressati ad occultare la verità? Alcuni anni fa il carnefice di Vienna, prolungò il supplizio di un disgraziato in modo orribile e un grido di indignazione si sollevò contro di lui in tutto il mondo civile, perché pubblica era stata l’esecuzione. Ma sappiamo noi a quali pene orrende può aver soggiaciuto l’infelice Guglielmo Oberdan, impiccato a Trieste, forse da quello stesso carnefice, in un cortile del carcere, agli incerti chiarori di un’alba fosca?
Che più?
I giornali americani recarono in questi giorni un racconto del supplizio di Kemmler, assassino della propria amante, seguito a New York col nuovo sistema dell’elettricità, che supera per ferocia fredda e per l’orrore che desta, tutti gli impiccamenti, gli squartamenti, le decapitazioni, gli attanagliamenti, la ruota stessa in uso nell’età di mezzo, la cui descrizione ci faceva rizzare i capelli in capo.
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