Perduto l'unico appoggio che erami restato, mi persi totalmente d'animo, e rinnovai preghiera a mio padre di entrare in un chiostro per un anno almeno, onde rinvenire quella pace, che da ogni parte venivami tolta. Egli acconsentì molto volentieri a questo mio desiderio; desiderio che infine era il suo. Ma dovemmo prorogare questa nuova risoluzione, perchè fra il popolo napoletano era nato del male umore e minacciava una rivolta, e per distornarla o per intimorire il popolo stesso, il governo richiamò sulla capitale un buon nerbo di truppa dalle varie provincie, e per conseguenza intervenne anche lo squadrone di cui faceva parta Arturo.
Quest'accidente ristorò il mio coraggio, e desiderai una rivoluzione. - L'idea di andare nel chiostro svanì. Stava per rivedere l'oggetto del mio amore, e ciò era quanto più io poteva anelare.
Il giorno in cui arrivò il distaccamento di cavalleria in Napoli, tutta l'uffizialità si recò a complimentare il proprio colonnello, e si fu in quest'occasione che rividi Arturo.
Dio mio! come era cambiato! La sua fisonomia sì rosea e fresca, era divenuta macilenta e pallida; il suo sguardo sì vivo, era languido, e quasi spento... sembrava un cadavere. Non so chi mi sostenesse, e non cadessi a tal vista.
Mio padre pure lo fissò. Pareva non riconoscerlo, e dopo d'avere scambiato parole di convenienza cogli uffiziali, s'avanzò verso Arturo, e gli disse:
- Cosa avete fatto tenente?
- Sono in cattivo stato di salute.
- Ma cosa vi sentite?
- Sono etico. - Rispose francamente.
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