CAPITOLO V.
Il sacrifizio.
Verso i primi di marzo, abbigliata da festa, chiusa in una carrozza, accompagnata da mio padre, dalla sorella e da mio cognato, veniva portata al convento R*. - Colà giunta, mi si affolla intorno uno sciame di monache: chi mi guarda, chi mi tira a sè, chi mi rivolge amabili parole, chi mi fa broncio, in guisa che mi avevano nauseata colla loro scurrile loquacità, ed indiscreta curiosità. - Intanto i miei parenti prendono commiato: e si richiudono quelle porte, sul cui frontone vi è scritto indelebilmente il verso noto del grande Alighieri:
Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate.
Rimasta in compagnia della zia abbadessa e di qualche altra monaca, fui condotta sopra nelle stanze della mia parente, la quale cominciò a spifferarmi un sermone adatto per una di quelle nature deboli e superstiziose, fuor di luogo per me. Mi magnificò la vita claustrale, i pregi della castità, le dolcezze della solitudine, le piacevoli sensazioni, la facilità per salvar l'anima, e tutta quella sequela di balordaggini ascoltai nel massimo silenzio, senza neppure alzare gli occhi da terra. Senonchè fui costretta a rispondere alle vane domande, che l'abbadessa mi rivolse.
- Mia cara fanciulla, non sei contenta di trovarti presso di noi?
- Per poco tempo sì, ma per molto no.
- Oh! non bisogna parlar così. - Sulle prime, voglio convenirne che ti troverai smarrita; poi vedrai che questa vita ti piacerà, e vi troverai delle dolcezze che tu certamente ignori.
- Comunque sia, io non sono entrata qui per farmi monaca, soggiunsi per vedere di scuoprir terreno, vi son venuta onde dar luogo al babbo di sistemare la casa e i propri interessi.
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Alighieri
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