Queste nozioni storico-politiche, ch'io trassi dal bel libro di Guttièrez intitolato: Il Capitano Decristoforis, erano assolutamente necessarie a spiegare la condotta di Emilio, ed a lumeggiare il dialogo ch'egli sta per avere collo Spadon dei dodici. A chi poi mi rimproverasse di aver voluto far entrar la politica, dove si avrebbe potuto farne senza, sono lieto di rispondere essere questa ormai divenuta, secondo me, un elemento cosí inevitabile di qualunque romanzo italiano, contemporaneo, che il passarvi sopra, sarebbe come se in un paesaggio un pittore dimenticasse il cielo, o in un ritratto lo sfondo.
Chi nel quarantotto aveva vent'anni, fu un gran codardo o un gran filosofo se nei dieci anni successivi non pensò proprio ad altro che a mangiare, a bere e a far l'amore.
Ed ora che ho rischiarato questo importantissimo punto, riannodiamo il filo del racconto.
Giunto all'osteria della Foppa, Emilio diè intorno la solita occhiata scrutatrice, ed entrò poco dopo che Lisandro era andato insegnando a Fanfirla il modo di farsi voler bene dalla Pendolina.
Mascherato com'era, nessuno lo avrebbe riconosciuto; fattosi perciò daccanto a Lisandro, e datogli del gomito nel braccio, gli chiese sottovoce dove fosse lo Spadon dei dodici.
Lisandro, dopo aver ravvisato Emilio, gli mostrò coll'indice il popolano che dirigeva il coro. E, come in quel punto la melodia era in pieno corso, cosí il Digliani per aspettare che terminasse, comandò del vino, e stette a riguardare la partita di morra.
Cessato il canto, Emilio si levò; lasciò che Paolino volgesse gli occhi nei suoi; gli fe' un quasi impercettibile segno di testa, e s'avviò fuori dell'osteria.
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