Machnò comprese che il più piccolo errore da parte sua sarebbe stato fatale per tutto l'esercito. Perciò studiò con cura il momento in cui dare battaglia decisiva al nemico. A nord i denikiniani erano già sotto Kursk.
Machnò esaminò la situazione e trovò che quanto più lontano si fossero lanciati i denikiniani in quella direzione, tanto più sicura sarebbe stata la loro rovina alle spalle. Comunque egli doveva ancora ritirarsi a occidente per la pressione delle forze nemiche.
Nello stesso tempo al gruppo denikiniano che stringeva Machnò da oriente se ne aggiunse un altro che veniva da Odessa e Voznesensk. La situazione peggiorava. L'esercito degli insorti aveva dovuto abbandonare le zone percorse dalle ferrovie, dopo aver fatto saltare tutti i treni blindati che aveva. La ritirata proseguiva per vie traverse, da villaggio a villaggio. I denikiniani non restavano indietro di un passo. Il loro scopo era non soltanto di battere Machnò, ma di liquidarne completamente l'esercito.
Questa ritirata, accompagnata da combattimenti quotidiani, durava da più di un mese, quando l'esercito machnovista giunse alle porte di Uman, tenuta dalle truppe petliuriste. Queste erano in istato di guerra coi denikiniani, per cui sorse il problema del modo di comportarsi coi petliuristi. Combatterli oppure trovare un'altra tattica? L'esercito machnovista aveva allora circa ottomila feriti, privi della più elementare assistenza medica. Costituivano un lungo e pesante convoglio legato all'esercito, che ne inceppava i movimenti e le operazioni.
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Versione con traduzione di Virgilio Galassi
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