Dalle due di notte sino alle quattro del pomeriggio, si battè ininterrottamente; alla fine, rotto il cerchio, si diresse verso nord est. Tre giorni dopo avvenne la stessa cosa nel villaggio greco di Konstantin: una massa di cavalieri nemici e un uragano di fuoco da ogni lato. Dalle informazioni degli ufficiali rossi prigionieri Machnò aveva saputo che gli agivano contro quattro armate, due di cavalleria e due miste, e che lo scopo del comando rosso era di stringerlo d'ogni parte con potenti masse, che già serravano rapidamente. Queste notizie si accordavano con quelle dei contadini, con le osservazioni e le conclusioni di Machnò stesso. Era ormai chiaro che la distruzione di due o tre gruppi dell'armata rossa avrebbe significato ben poco in mezzo a quella massa di truppe gettate contro i machnovisti. Ormai non si trattava più di vincere le forze sovietiche, ma soltanto di non lasciare alla catastrofe l'esercito degli insorti. Quel piccolo esercito di 3000 uomini doveva combattere quotidianamente con un nemico di dieci quindici mila uomini. In tali condizioni l'esercito era certamente votato alla rovina. A seguito di una deliberazione del consiglio degli insorti rivoluzionari fu deciso di abbandonare temporaneamente tutta la regione meridionale, lasciando a Machnò piena libertà di muoversi con l'esercito.
Al talento di Machnò si presentava l'occasione di una prova grandissima. Sembrava del tutto impossibile sfuggire a quella massa di truppe che da tutti i lati cercava di agganciare il gruppo machnovista.
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Versione con traduzione di Virgilio Galassi
Konstantin Machnò Machnò Machnò Machnò
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