Alla stazione di Verchni Tokmak vide un manifesto su cui era scritto: «Morte ai giudei, salviamo la rivoluzione, viva il padre Machnò».
«Chi ha affisso quel manifesto?», chiese Machnò.
Risultò che il manifesto era stato affisso da un partigiano, conosciuto personalmente da Machnò, che aveva partecipato alla lotta contro Denikin e che, in fondo, non era un uomo cattivo. Pure fu preso e fucilato immediatamente. Machnò proseguì per Guliai-Pole. Ma per tutto quel giorno, mentre trattava con gli inviati della repubblica restò sotto l'impressione di quel doloroso incidente. Sapeva di essere stato crudele con quel partigiano, ma contemporaneamente vedeva che quei manifesti, in un momento in cui il fronte era premuto dall'attacco di Denikin, potevano essere di grande danno alla popolazione ebraica e di pregiudizio alla rivoluzione stessa, se contro di essi non si fosse agito subito e con decisione.
Durante la ritirata su Uman, nell'estate del 1919, si verificarono casi di saccheggio di beni appartenenti a famiglie ebraiche per opera dei partigiani. Quando gli insorti indagarono su questi fatti scopersero che responsabile era sempre lo stesso gruppo di quattro o cinque uomini. Venivano dai reparti di Grigoriev ed erano entrati nell'esercito machnovista dopo l'uccisione del loro capo. Questo gruppo, appena scoperto, fu liquidato; quindi furono allontanati dall'esercito tutti i militanti che avevano appartenuto ai ranghi di Grigoriev: furono considerati elementi privi di basi ideologiche, alla cui rieducazione mancavano e condizioni e tempo.
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Versione con traduzione di Virgilio Galassi
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