Mi pare che ora sono per noi che ascoltiamo, e se li stamperà saranno per il pubblico. - E non, avrebbe ragione?
Dunque sul mio frontispizio ho scritto di e non per Massimo d'Azeglio.
Ora, supponiamo altresí che la mia storia non annoiasse troppo quel crocchio, e qualcuno volesse dire che sarebbe bene metterla in carta, mi direbbe forse: -Perché non detta questi suoi ricordi? - Mi direbbe: Perché non li scrivi? Altrimenti gli potrei rispondere: Io non ho mal d'occhi, né reumi alle dita, e posso scrivere senza dettare.
Pare impossibile che ci siano cervelli che vedano un'eleganza nell'equivoco, nel falso e nell'affettato! Se cosí fosse, ci vorrebbe poco a scriver elegante!
Principiando, dunque, il mio libro, ho pensato dire che da un pezzo avevo in mente non di dettare ma di scrivere i miei ricordi.
Terzo ed ultimo esempio. Nella detta società, se volessi dirigere la parola a chi non è di mia confidenza, non gli darei di tu né di voi; e perché? Perché non s'usa. Dunque, perché dovrei dare di tu al mio lettore? Gli do di lei secondo il costume italiano. Il giorno che in società si darà di tu a tutti, lo darò anche al lettore.
Questi esempi bastano certamente a spiegarle la mia idea, la quale, in sostanza è questa: servirsi delle parole comuni secondo il loro senso naturale, evitare ogni parolone, ogni equivoco benché minimo, evitare le trasposizioni, far in modo insomma che il lettore capisca completamente, subito, ed anzi gli sia impossibile, anche per un attimo, esitare sul vero senso di quello che legge.
Perciò se fo una cosa dico che è fatta da me e non per me; se invece mi faccio fare dal sarto un vestito, dico che l'ha fatto per me. Perciò, se scrivo un'istoria, non dico che la detto.
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Massimo Azeglio
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