Dopo aver esposta l'accusa di durezza direttagli dai suoi pari, i signori di Torino, finiva col dire: "Resta ancora a vedersi,
Se m'i sonn dur, o s'i se voui d'polenta!
E siccome io ho rinnovata qui l'accusa, sarà bene che mi raccolga e faccia il mio esame di coscienza: se anche a me non mi si adattasse la risposta.
D'un altro aneddoto mi ricordo. Trattandosi d'un tal uomo, penso riesca caro l'udirlo ad ogni lettore.
Alfieri lesse egli stesso ai miei parenti la sua Alceste e la sua Mirra. La prima cavò molte lacrime dagli occhi di mia madre; ma colla seconda ebbe l'autore un trionfo maggiore, e del quale seppe valutare la sincerità e l'importanza. Mia madre, la cui coltura era stata sempre vegliata dal marito in modo da scevrarne ogni immagine meno che pura, ignorava l'istoria di Mirra (e confesso essermi sempre sembrato strano che, col pretesto della vendetta di Venere, abbiano i classici voluto farci inghiottire quel vituperio, mentre ad una sola vendetta di Venere crediamo ora, e questo non è soggetto tragediabile). Perciò, mentre Alfieri leggeva, passa il prim'atto, passa il secondo, il terzo e via via, e mia madre guardava in viso ora il marito, ora Alfieri, e le uscivan di bocca voci di meraviglia, come a dire: "Ma che cos'è? Ma che ha questa donna?" E se non all'ultimo quando essa dice, se ben mi ricordo, parlando della madre:
Felice lei che può morirti accanto!
Quando tutti capiscono perché cosí vuole l'autore, allora e non prima, capí anche mia madre. Alfieri ne fu al terzo cielo; e certo era una soddisfazione d'amor proprio, ed un elogio non punto sospetto.
L'amicizia che correva fra il conte Alfieri e mio padre, su un punto solo li lasciava divisi: sulla questione religiosa.
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