In una appunto di queste camere, onde mi divagassi meno, fui stabilito dal mio prete in un bel giorno d'estate del 1813, e lascio pensare che bell'allegria mi paresse la mia villeggiatura.
Questa casa d'esercizi dove s'era in quaranta o cinquanta persone (c'erano altresí i miei due fratelli Prospero ed Enrico, ma essi erano stati fatti degni d'una camera sulla campagna) era tenuta da un tal abate Guala, e ci si viveva a convitto come in un collegio.
L'abate Guala fu già una celebrità in Torino. Si son dette di gran cose di lui in fatto d'intrighi preteschi. Si diceva che dell'arte d'ereditare d'Orazio avesse fatto uno studio particolare ed anzi superato il maestro. Di questo non ho nessuna prova, ed è mia massima non affermare se non quello che so di certo. Ma perciò appunto posso dire di certo che era un fanatico, senza ingegno, senz'ombra di giudizio per ottenere quel bene che, voglio crederlo, aveva per iscopo; quello che è piú certo ancora, è che mi fece passare otto giorni de' quali non mi scordo piú, vivessi mill'anni.
Salvo le ore di pranzo e cena, li passai, o in chiesa a sentir prediche, o in camera, dove dopo mi mettevano onde ci pensassi su, e persin la notte se mi svegliavo, vedevo sempre a farmi la guardia quel Sant'Ignazio nero, immobile e che, nelle semitenebre che manteneva il debole lumicino della lampada dell'altare, pareva tutt'altro che un abitante del paradiso.
La conclusione fu, che non sapendo proprio come passare le tante ore della giornata, ed anche per sfogare la stizza, feci un sonetto che davvero si poté dire di circostanza: e lo scrissi su uno sportello, col lapis. Mi ricordo della prima quartina, e diceva:
Volendo far veder la Seccatura
Quanto tremenda sia sua potestà,
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