Soltanto dichiaro che cogli atei, panteisti, materialisti, non voglio aver che fare. L'ateismo, se è logico, riduce la questione della vita a questa formola semplicissima: Far bene a sé, come e quando si può, colla sola riserva d'evitare la forca. E siccome non si può concepire l'esistenza della società umana senza il sagrificio reciproco, volontario e continuo, cosí coll'ateismo non v'è accordo possibile.
Non per questo però il problema in un senso è semplificato di molto. Dal metodo del mio povero prete, di fare dell'educazione un noviziato di cappuccini, a quello di Rousseau, d'aspettare i trent'anni per porre in campo la questione della religione, rimane un grande spazio libero.
Mi limiterò ad alcune brevi osservazioni che mi sembrano accettabili da tutti.
Ogni educatore, sia qualsivoglia la sua opinione religiosa, deve necessariamente prefiggersi per iscopo, di far del suo allievo un galantuomo. Per esser tale, bisogna per prima cosa imparare a far spesso quel che non piace. Sarei curioso di sapere perché farei quello che non mi piace, fuor dell'idea d'un premio o d'una pena nella vita futura.
Fuori di tale idea tutto si riduce ad una questione attuale d'impunità: cioè, imparare a far quel che mi piace in modo che non mi procuri in altro modo dispiaceri. Che cosa potrei dunque dire, qual ragione addurre all'allievo, onde non faccia sempre quello che gli piacerebbe e diventi galantuomo? Gli avrò a dire che bisogna esserlo se si vuol far fortuna? Mi riderebbe in viso, fosse pure a balia! Gli avrò ad esporre le tesi socratiche, non esservi altro bene se non il giusto, né altro male fuorché l'ingiusto; quindi, se io commisi ingiustizia, essere un bene, anche per me, che mi taglino il collo onde il giusto trionfi?
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Far Rousseau
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