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      La penitenza s'intende di prendergli corona e scettro, e metter lui fuor dell'uscio.
      Noi, come tutti gli altri residenti diplomatici, si veniva a mano a mano informando la nostra Corte di tutto quanto si poteva sapere, supporre o dubitare dei progetti della Corte di Napoli; e mi toccava la pittoresca occupazione di copiare pagine e pagine di cifre che non capivo, per il nascente archivio della legazione.
      Tale era la mia vita in quel tempo; e malgrado la cifra, mi ci ero assai facilmente avvezzato. Allora, i pranzi d'invito, i balli, le soirées, il mondo elegante non m'ispiravano quel sacro orrore che ora me ne tien lontano. Non avevo provato né goduto mai altrettanto e mi trovavo contento. Ma nel meglio, ecco comparire il nostro successore, marchese di San Saturnino, e bisognò pensare a far fagotto.
      Avevo del resto una consolazione. Ero stato nominato sottotenente in Piemonte Reale Cavalleria; non ne conoscevo l'uniforme, ma nutrivo una lontana speranza d'essere destinato dall'amica fortuna ad avere in capo un elmo, sogno della mia infanzia; e questo splendido avvenire m'impediva di pianger troppo le mie conoscenze romane.
      S'erano intanto rimessi in piedi i gesuiti. Mio fratello era all'ordine, e stava per vestir l'abito. Profittò dei giorni che ancora gli avanzavano prima della funzione per stare a modello perché Landi gli facesse ritratto.
      È questa una delle belle cose di quell'artista, che, poverino, non ne ha fatte troppe; ed ora il detto ritratto è presso mio nipote Emanuele.
      Finalmente giunse il giorno della vestizione, ed andai anch'io al noviziato a Monte Cavallo ove doveva seguire.
      Tutti quei gesuiti erano in festa, com'è naturale, per vedersi risorgere; e, com'è altrettanto naturale, erano tutti vecchi, e fra loro soltanto alcuni novizi giovanissimi.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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