La mia vita pel resto era regolarissima. Salvo la famiglia Orengo, che allora abitava al palazzo Falconieri a San Marcello, salvo Gherardo de' Rossi, e qualche altro, non frequentavo società. M'alzavo presto, ed andavo subito allo studio. N'ebbi uno dapprima ai Due Macelli, sull'angolo della via che va a Capo le Case; poi, lí accosto, un secondo accanto al palazzo delli Pupazzi. La sera andavo a letto presto, con gran meraviglia dei Romani e delle Romane, quand'era la bella stagione.
A Roma l'orario sta col calar del sole, come ognun sa. Vi son cose che tutto l'anno si fanno alle medesime ore dopo l'avemmaria. Si va in società, verbigrazia, a 3 ore di notte. Però l'inverno porta d'andarvi alle 8, e l'estate alle 11. E c'era sempre da bisticciarsi: - Come, mi dicevano, vai a letto a due ore e mezzo? - Ed io: - No, ma alle dieci e mezzo, come fo tutto l'anno. - Ma sono due ore e mezzo - Ma sono le dieci e mezzo. - e via via.
Questa vita ordinata mi conferí moltissimo per rinfrancarmi addosso la sanità, e potei oltre gli studi del disegno spingermi innanzi anche nella musica, nelle lettere italiane, nella storia ecc. ecc., e siccome poi mi trovavo proprio nell'età piú proclive al peccato di poesia, caddi anch'io, come tutti gli altri, e fabbricai ottava per ottava un poema cavalleresco! Anzi, ora che ci ripenso, avevo già fatto parecchi canti d'un altro poema intitolato: Rinier d'Aspromonte (curiosa coincidenza garibaldina!) all'età di quattordici anni.
Di questo secondo non ricordo il titolo. So che la scena era a Saluzzo, alla corte del Marchese, e v'accadeva un'avventura abbastanza comica. Una damigella doveva essere ottenuta in isposa da chi vincesse un tal torneo. V'era un negromante nemico della medesima, interessato ad impedirne le nozze.
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