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      Altro che star a sedere!
      Mentre si villeggiava a Castello, io scendevo nella sottoposta pianura a caccia, ed invece d'uccelli vi presi le terribili febbri maremmane, antico flagello del Lazio. Certo la febbre v'era ai tempi d'Orazio, che se ne lagna come ognun sa. Non capisco però come si possa credere da parecchi che gli antichi Latini egualmente ne venissero travagliati. Come combinare i numerosi eserciti, quello de' Rutuli, verbigrazia, che Coriolano condusse alle porte di Roma, coll'esistenza della malaria? Chi è stato ad Ardea loro capitale e capitale altrettanto della febbre (ed io ci fui, grazie alla cortese ospitalità dell'ottimo mio amico il duca Sforza, che è padrone dell'antica sua rocca), chi ha veduto il loro territorio non maggiore certamente delle quaranta o cinquanta miglia quadrate, giammai crederà che se ne fosse potuto cavare un esercito di quarantamila uomini, se la febbre di maremma fosse stata loro contemporanea. Andate oggi a cavare mille uomini atti alle armi dalle Paludi Pontine, se vi basta l'animo!
      Quand'io me la presi, non era ancora scoperto il chinino. Dunque china pesta a gran bicchieri; ma all'ingresso della malattia ebbi otto o dieci febbroni, senza intermittenze: e colla febbre non si dà la china. Come Dio volle non si mutò in perniciosa, e cosí non me ne andai all'altro mondo. Anche sfebbrato, seguitai la china, e in pochi mesi ne presi sette o otto libbre.
      Queste febbri me le portai un anno; ma, caso raro, non mi lasciarono ostruzioni. V'è su ciò un proverbio in campagna di Roma: La terzana, il giovane risana, Al vecchio suona la campana.
      Nessuno può aver idea né del ghiaccio dello stadio algido, né del fuoco dello stadio ardente, caratteri di queste febbri, che fanno molto soffrire.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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