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      La mattina presto andavo spesso a passeggiare ne' boschetti di villa Borghese; avevo con me carta, album, lapis, tutto l'occorrente sia per disegnare che per scrivere; sedevo solo a qualche ombra, e poi non veniva fuori né scritto né disegno. Aspirazioni, desideri, presentimenti, speranze, sogni d'amore, di gloria, di sventure, d'atti luminosi, arditi, m'accendevano confusamente l'immaginazione ed il cuore. Era uno stato penoso appunto, per essere senza scopo e senza uscita, ma che destava in me un'intima gioia, per la pienezza di vita di che m'inondava. Sbocciava nel mio essere quel fiore misterioso che s'apre nell'anima nostra per segnarne la primavera. È questo un gran tesoro, il maggiore di tutti a chi ne sa profittare, perché messaggero della piú potente tra le forze poste da Dio a disposizione dell'uomo. Ma purtroppo dai piú il tesoro si getta alle passioni, la forza si disperde nel vano, e si conosce il danno quando è troppo tardi!
      In quante cose di questo mondo chi sa non ha, e chi ha non sa!
      Io aveva appunto fatto come i piú in quella mia primissima gioventú, anticipata dalle circostanze, ma che di fatto era adolescenza: il primo fiore dell'anima e del cuore l'avevo calpestato nel fango; ma grazie agli esempi e all'educazione avuta, grazie a Bidone, quella vergognosa pazzia finiva a tempo; non era completo il pervertimento; in me la sola corteccia era intaccata. Forse a ciò contribuiva la mia natura, dono di Dio e non fattura mia: natura dalla quale difficilmente si cancella quella bella, giovenile impronta che cosí bene custodisce i generosi pensieri. Difatti io non mi sono invecchiato tutto d'un pezzo. La giovinezza dell'anima è durata in me moltissimo, mentre invecchiava il corpo, e neppure ora la trovo spenta.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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