Dal '60 in qua soltanto mi comincio a sentire il cuore invecchiato. La speranza è l'aroma che meglio lo conserva giovane, e gli anni (è questo il loro piú amaro oltraggio) ne portano con sé parecchie ad ogni rinnovar di stagione.
Si figuri dunque che cosa dovevo essere nel 1819-20. Cercavo una via che desse corpo e vita a quel risplendente avvenire che mi appariva in sogno. Nella pittura immaginavo vie nuove, nuovi concetti; non i quadri fatti colla ricetta de' manieristi del secolo XVIII: non la minuta e scrupolosa imitazione del vero de' pittori nostri del tempo mio, ché, se tutto stesse in essa, si darebbe la palma alla fotografia sulla pittura. Allora non potevo mettere in conto l'imitazione, neppure scrupolosa, del brutto, non avendo ancora il realismo invaso la classe de' paesisti.
Eppure, poiché parlo di ciò, la scuola realista nella pittura del paese è un invenzione che fa onore all'ingegno umano. C'era chi non aveva scintilla artistica, non sentiva il colore, non aveva voglia di lavorare. Un balordo se ne sarebbe rimasto umile umile dicendo: "Non ho le qualità per diventar pittore; pazienza, e cosí sia: farò il falegname." L'uomo di talento ha detto invece: "Che cos'è questo eseguire, questo comporre, questo colorire, questa pulizia di tinta, questo lampo di vero? Tutte scioccherie dei codini dell'arte vecchia. Ecco l'arte nuova, l'arte dell'avvenire.... ecc." E quel che ci ha servito in tavola, chi ha occhi lo vede. E il pubblico se 'l beve.
Ma lasciamo questo discorso per ora. Troverò luogo piú a proposito per parlare d'arte e d'artisti. Discorso lungo.
Io dunque anche in arte facevo castelli in aria, e mi pascevo di fantasie: ma siccome conoscevo dovermi prima di tutto rendere padrone della tavolozza, dell'esecuzione, della facoltà di colpire il vero, badavo intanto a mettere, faticando assai, questo primo fondamento.
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