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      Che poteva far di piú, la poverina, qual bene, qual felicità era in lei che non v'abbia donata coll'amor suo; quanto non arrischiò, quanto non affidò alla vostra lealtà ed all'onor vostro, e voi calpestereste tutto ciò; tradireste la sua fiducia, la mettereste per le bocche di tutti per la piú stupida delle vanità, quella di passare per un don Giovanni Tenorio?
      Siccome è ben raro il caso che un uomo, fosse pure poco aggraziato quanto si vuole, non abbia in vita sua trovato amore, o d'un calibro o d'un altro, la regola migliore per tutti è non parlarne, e meno ancora scriverne.
      È verissimo che dal racconto di simili fatti si potrebbe ottenere anche un bene ragionandovi su, e cavarne qualche bussola all'uso di quelle povere navicelle che mettono alla vela per la prima volta, piene di speranze e d'illusioni, in quel mare che davvero può dirsi per eccellenza l'elemento infido. Cosí per salvare capra e cavoli, mi limiterò ad esporre fatti in generale, e su questi indicherò alcune riflessioni.
      Il maggior danno dell'amore, quale spesso esiste nelle classi leggenti sta nella necessità della bugia continua. Chi fa all'amore è raro che non sia costretto ogni momento a dire o a fare qualche bugia. Quindi si diventa per abitudine finti. Il carattere si falsa, e presto v'accade come a coloro che non hanno orecchio in musica: le bugie, come le note stonate, non vi fanno piú nessun senso spiacevole.
      Io non caddi mai in quella bugia... altro che bugia! perfidia dell'amore a freddo e per calcolo. Non ho mai detto e cercato persuadere ad una donna che l'amavo, se non era vero. V'è pur troppo, e non è tanto raro, chi vede una donna giovane, unita e d'accordo col marito, amante della famiglia, felice in casa, senza misteri, senza fastidi, sempre colla mente allegra ed il cuore sereno, v'è, dico, chi la prende di mira, si figge in capo di devastare un cosí ridente giardino, e renderne miserabili gli abitanti per poter dire poi: - Ci sono riuscito!


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





Giovanni Tenorio