Si passò per Milano, e questa volta non vi feci piú la mia entrata "cum fustibus et lanternis" condotto in Santa Margherita per mancanza di carte. Rammento un aneddoto da nulla, ma che allora mi fece senso. Vennero molte persone a trovarci alla locanda, fra gli altri un Monsignore; ma mi è impossibile ora raccapezzare chi fosse. Parlando del piú e del meno, si venne a discorrere dell'istruzione. Dopo vari ragionamenti, - Io penso poi, - disse il Monsignore a guisa d'epifonema, - che i popoli ignoranti sono piú facili a governare. - Io non mi meravigliai tanto della massima, quanto di sentirgliela spiattellare con quel candore, e pensai tra me (ero fresco di Roma) "Monsignore mio, se ti mantieni cosí candido farai poca fortuna." Neppur posso saper piú se la mia profezia s'è avverata.
A Torino la società era in quello stato d'inquietudine smaniosa che provano gli ammalati la vigilia d'una espulsione. Il ventuno, o meglio la famosa Costituzione di Spagna stava pelle pelle per apparire. Io ero parente, o conoscente almeno, della maggior parte de' menatori, e molti frequentavano mia cognata. Non ero di nessuna combriccola, non ero carbonaro, non ero di quei muratori che non so perché si chiamano liberi. Se non fosse perché sono costretti d'ubbidire a due governi invece d'uno. Bisogna dire che la mia fisionomia non ispirasse fiducia come cospiratore, settario e simili: mai e poi mai m'è stata fatta la proposizione d'entrare in società segrete, e perciò non vi sono entrato. Non ho il coraggio d'affermare che per giudizio precoce me ne sia astenuto, poiché a diciotto o venti anni si va a fortuna e non a criterio. Fatto sta che in qualunque modo fosse, m'è toccato in gran vantaggio di non aver mai timore che il mio nome si trovi su una lista di settari; né che veruno me lo squadri in faccia qual documento di traditi compagni, o di violata fede: che mai nessuno, mentre ero negli affari, avesse diritto di accostarmisi e dirmi in un orecchio: "Ehi signor Massimo, ricordiamoci!
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