Se gli anelli del mio ragionamento sono sani ed interi, all'ultimo si troverebbe dunque che la marchesa d' Crsentin e Plutarco, in fondo in fondo, erano piú nel vero che non Nerone ed io: lui, volendo fare il musico invece di fare l'imperatore; io, volendo far il pittore invece di far il soldato.
Quante volte l'ho provata, nelle varie vicende della mia vita, la profonda realtà di quel vero! Quante volte ho pensato: "Oh come mi servirebbe piú adesso avere studiato e saper bene, verbigrazia, il servizio di campagna, che di saper far uno studio d'una quercia dal vero! Saper il codice, avere idee amministrative, conoscere il meccanismo delle finanze, del credito, piuttosto che aver l'abilità di dipingere un cielo o un lontano; ovvero di scrivere delle fandonie che non sono mai succedute, per far correre una stilla su una bella e fresca guancia!"
In questo caso però l'accusa ch'io muovo contro me stesso non è senza difesa. Invoco le circostanze attenuanti.
Presso gli antichi Romani, come presso i Greci, la sola occupazione degna dell'uomo libero (tanto piú se nato in fortunata condizione) era l'arte dello Stato. Presso gl' Inglesi domina all'incirca lo stesso sentimento. E perché? perché gli uni come gli altri ebbero ed hanno patrie non sempre libere, ma sempre in lotta per la libertà. Perché i loro cittadini avevano diritti, leggi che li difendevano, avevano un'arena politica, uditori, aderenti, avversari, avevano uno scopo contrastato, utile, grande, glorioso da ottenere.
Che cosa invece poteva offrire a me, coi sentimenti e l'idee mie, un despotismo pieno di rette ed oneste intenzioni, lo crederò, ma del quale erano rappresentanti ed arbitri quattro vecchi ciamberlani, quattro vecchie dame d'onore, con un formicaio di frati, monache, preti, gesuiti? ecc. ecc.
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