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      E cosí ho sempre fatto in appresso, e fo tuttora. In questo caso come in tanti altri, quel che rovina è la vanità: quello che salva è l'orgoglio. La vanità s'umilia davanti al creditore, pur di comparire e sfoggiare. L'orgoglio va dimesso, e se ne tiene, pensando ch'egli non s'inchina, e non ha obblighi a veruno.
      Mi guardai dunque bene di far visite o lasciar biglietti a tutte le mie antiche conoscenze signorili. Mio zio, il cardinal Morozzo, era andato a risiedere nella sua diocesi di Novara. Il cardinal De Gregorio, amicissimo di mio padre, fu la sola alta relazione che mantenni.
      Trovai uno studio in una casetta in piazza di Monte d'Oro, e con qualche soldo portato da Torino per le spese di primo impianto, mi ci accomodai di quanto m'occorreva, e diedi subito principio al mio nuovo sistema di vita.
      Era inverno, perciò non si poteva studiare dal vero. Mi diedi ad altre occupazioni, dividendo cosí la mia giornata. M'alzavo un paio d'ore avanti giorno, ed andavo da un maestro che riceveva ed ammaestrava a lume di candela molti scolari, i quali a lume di sole aveano altri impegni. Esso era un genovese, un tal Garello, uomo di molto acume e che aveva trovate nuove ed utili applicazioni della mnemonica allo studio della storia e dell'inglese.
      A levata di sole la lezione finiva, ed ognuno se n'andava alle sue faccende. Io m'ero fatto amico col cavallerizzo del Rospigliosi, e per pochi soldi potevo per un'ora trottare e galoppare nel cortile del palazzo a Monte Cavallo.
      Di equitazione, senza darmi un gran vanto, me ne intendevo piú di lui e della sua scuola. A Roma, non saprei oggidí, ma in quel tempo il codice dei cavallerizzi consisteva in una sola parola - nerbate, se il cavallo non cammina, nerbate; se cammina troppo, nerbate; se non volta, nerbate; se volta troppo, nerbate - e via via.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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