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      Torno a Castel Sant'Elia. Noi che ci eravamo venuti per veder lavorare dal vero Verstappen, vuol crederlo? non fummo mai musi da vedergli dare una pennellata: si può dire, nemmeno di vederlo. La sera s'andava in casa sua, ma quasi sempre era già a letto. Come giovani si faceva chiasso, si suonava una chitarra, o colascione, tanto da ballare il saltarello, ballo romanesco, compagno della tarantella. Figuriamoci se ci mandava in quel paese il povero Martino! Non era però la sua casa il nostro solo rifugio. Dopo i primi tempi, quella popolazione ci aveva accettati come gente innocua, e che pure qualche cosa spendeva. S'aprí per noi la porta della prima casa del paese, la famiglia Saetta. V'era un capo di casa maritato ed un prete che ci accordarono da prima un saluto, poi saluto e toccata di cappello, poi toccata di cappello e sorriso, poi finalmente parole, ed in ultimo accesso in casa. Io m'ero offerto per sonar l'organo la domenica, e con ciò m'ero affiatato anche col curato al quale accompagnavo la messa cantata. A questo vecchio galantuomo era succeduto un caso non dei piú frequenti: quello d'essere stato fucilato dai Francesi una ventina d'anni prima nel giorno medesimo che aveva visto l'eccidio della casa da noi abitata. Egli raccontava che l'avevano preso, condotto sulla strada di Nepi, fatto metter ginocchioni con parecchi altri, poi una salva di schioppettate e via tutti senza guardarsi indietro. Egli s'era buttato in terra, benché non tocco, ed era rimasto zitto e immobile fra que' morti o morenti finché vide fatto notte. Allora piano piano alzò un po' il capo, esplorò, e trovato scena libera, se la svignò di siepe in siepe, tantoché si trovò di nuovo la mattina nella sua parrocchia.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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