Mi si fece giorno presso alla Storta all'osteria del Fosso, famosa per l'ostessa che vi sedeva a tavola con ventidue figli tutti sani e robusti: e prima di mezzogiorno entravo in Roma.
PARTE SECONDA
CAPITOLO PRIMO
Torniamo un passo addietro.
Nel marzo di quel medesimo anno era scoppiata la rivoluzione di Piemonte, che in un mese fu finita e liquidata; lasciando però tristi tracce, e piú tristi germi nella società come nel paese.
Per quanto io ne fossi fuori, e nel tutt'insieme facessi poco fondamento su quell'impresa, mi sentivo pure correr piú veloce il sangue a mano a mano che se ne spargevano le nuove per l'Italia, ed insino a Roma se n'udivano i racconti.
L'amico Bidone mi scrisse d'andare subito, onde adoperarmi in queste mutazioni. Mio padre invece, mi spediva contemporaneamente due o tre lettere, l'una a Roma, l'altra a Firenze, una terza a Genova, pel caso che già mi fossi mosso, perché o l'una o l'altra mi capitasse in mano, nelle quali mi comandava di non venire sotto verun pretesto. Io gli ubbidii, e quest'ubbidienza mi fu di poi messa a conto di gran merito nell'animo suo. Ma io n'ebbi poco. Anche a ventidue anni, già capivo che colla santa alleanza nel suo bel fiore, volere senza forze, senza alleanze, proclamare per sorpresa la costituzione di Spagna in uno Stato italiano, era nient'altro che farsi il provveditore del patibolo. E poi perché proprio quella di Spagna? Come se Spagna e Piemonte fossero due gemelli, che possono scambiarsi panni tagliati ad uno stesso dosso! Però la ragione c'era. Con quella costituzione si poteva far meglio la politica in piazza, ecc. Sempre la solita commedia.
Mentre si stava preparando l'invasione del regno di Napoli, decisa a Laybach, io m'era offerto al cavalier Micheroux, ministro di Napoli presso il Papa, domandandogli di servire nell'esercito.
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