Dalle aristocrazie operose è potuto uscire qualche bene. La francese, la nostra, la germanica ed altre nella guerra; l'inglese nell'arte dello stato, produssero uomini e cose utili e grandi; ma dall'aristocrazia del non far niente qual è la romana, figlia e serva del Papato per la maggior parte, che cosa aspettare? Il clericato, che la fece ricca, l'ebbe in sospetto e non la volle potente: l'escluse da ogni ingerenza politica; spense nel lusso, ed in ozio forzato, ogni sua virtú: quindi ozio, avvilimento e rovina! Ma ritorneremo or ora su questo argomento.
Siffatto vizio non è però specialmente annesso alle aristocrazie: può trovarsi in ogni classe alla quale si concedono privilegi che la dispensino dall'avere in sé un valore, un merito reale, ed un virtuoso scopo alla sua esistenza. La plebe romana che per privilegio viveva dell'elemosine regolari degl'imperatori e de' loro spettacoli, senza far nulla, diventò il piú colossale ammasso di canaglia che registri la storia.
E pur troppo i donativi antichi, ed i denari dell'indulgenze di Roma papale, hanno tramandato le tristi tradizioni, vive ancora e potenti nel popolo d'oggi; ed il suo Eldorado, del far quattrini senza meritarseli.
Quindi pei mestieri delle anticamere si trova il Romano: pei mestieri di fatica si chiama il forestiere. È veramente curiosa la ripugnanza del Quirite a lavorare, non tanto forse per pigrizia come per superbia; ed ecco sempre il tu regere imperio, ecc. In campagna, per tutti i grossi lavori, arrivano colonie di fuori: per vangare e far fossi vengono i Burrini (Marchigiani), per mietere gli Aquilani, per l'olive i Lucchesi, ecc., ed il Quirite panneggiato nel suo mantello sta a guardare...
Se i Romani vorranno far di Roma una capitale salubre che dia vita forte ed energica al governo italiano, dovranno cancellare le tradizioni della plebe de' Cesari e diventare un popolo moderno, che stimi onorato il lavoro non l'ozio.
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