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      Era temuto e rispettato in paese, ma piuttosto lasciato stare. Lui che poco si curava di tenerezze, non ne faceva caso. Oderint dum timeant, era il suo motto. Quantunque ricco, non lasciava però d'andare ogni mattina a lavorare alle cave del travertino, quando la vigna gli dava vacanza. Era sfogo di naturale attività e sete, se non dell'oro, dell'argento. Cinque paoli guadagnati colla grazia di Dio, fanno bene all'anima ed al corpo, diceva lui.
      Ai tempi di repubblica, passando Championnet per andare a Napoli (qualcuno a mezza bocca lo lasciava capire), pare che egli avesse ottenuto un non so che somigliante alle lettres de marque, colla sola differenza di poter esercitare a terra a danno degli aristocratici.
      Difatti v'era stata in quei tempi una lunga e totale eclisse del sor Checco: dopo la quale, un bel giorno i Marinesi se lo rividero tra' piedi, senza che nessuno si fosse accorto da che parte arrivasse. Essendo l'arte sua quella di scarpellino, si ripiantò alle cave, lavorando a giornata come prima; col fare, col viso, coll'umore e co' panni di prima.
      Soltanto nel corso di due o tre anni diventò padrone di terre e case e cantine. È vero che aveva sposata una vedova piú vecchia di lui e che si diceva avesse il morto.
      Comunque sia, Checco scarpellino era diventato il sor Checco; e chi ci poteva trovar a ridire?
      La sora Maria, sua moglie, buona vecchia, un po' sciancata (si bucinava a questo proposito una storiella che ricordava il momento di vivacità che ebbe Nerone con Poppea), aveva una particolarità: in due anni non la vidi mai ridere.
      Unico frutto di questo letto, non sempre morbido, era una figliuola chiamata la sora Nina: color di patate lesse, con due occhi sbiaditi come le bolle dell'olio nella pappa: l'essere piú apatico della creazione.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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