Bisognava sentire i giovani, i militari, gli impiegati, messi al bivio di rimetterci il posto o cantar miserere, che moccoli attaccavano in via preventiva. V'era da farsi un'idea di quello che sarebbero stati all'atto.
In somma era una trista commedia; e non volendovi assistere, risolsi di scegliere quell'anno per far una visita ai miei parenti a Torino, e portar loro un saggio di quel poco che avevo imparato.
Finito il mio quadro e messolo in mostra (privatamente però, nel mio studio), ebbe un vero incontro, e fino ad un certo punto lo meritava. C'era molta novità, composizione grandiosa, colore, effetto. Lo vennero a vedere i giovani dell'arte, ed anche parecchi barbassori; ed insomma nell'insieme piacque.
Fattolo incassare, lo spedii per Genova a Torino; ed io mossi per Firenze, in compagnia d'un certo monsignore, mezzo pazzarello, mezzo originale, uomo però di grande ingegno. Egli faceva all'amore nell'istessa famiglia dove ero impiegato io: s'era quindi stretta fra noi una specie di società di mutuo soccorso per vegliare sui nostri interessi.
S'io avessi da narrare tutte le diavolerie eroi-comiche e semi-tragiche che nacquero da quella nostra partie carrée, n'avrei per un pezzo. Ma da tutti questi amori, spremi spremi non n'esce nulla; e come già dissi, li raccontino altri.
Però questa la voglio dire. Mentre si viaggiava in poste verso Firenze, una mattina appena l'alba, vidi il mio prete rincantucciato che pareva tenersi un volumetto dinanzi agli occhi.
- Che dica l'uffizio! Diavolo!...
Allungo il collo, e vedo che non era un libro, ma un portafoglio, col ritratto di madamina!
A Torino trovai i miei parenti, che m'accolsero con quell'amore e quelle feste che si può immaginare.
| |
Torino Genova Torino Firenze Firenze Torino
|