Comparve, come a Dio piacque, anche il quadro sano e salvo. Lo rizzai in una camera ad una discreta luce; lo videro i miei e parecchi amici, e se a Roma aveva fatto incontro, a Torino sembrò una meraviglia.
Il mio buon padre si persuadeva che tutti i diamanti di Golconda non valevano il mio quadro.
Egli immaginò tosto di volerlo presentare al re allora regnante, Carlo Felice, ed intanto ottenne che mi venisse data una delle sale del palazzo Madama, ove posi in mostra il mio lavoro con tutti quegli aiuti di tele scure che s'usa, accomodate in modo da dare al dipinto il migliore effetto possibile.
Cominciò il concorso del pubblico e la fortuna andò sempre crescendo. Io n'ero felice, piú che per me, per la profonda soddisfazione che scorgevo in mio padre e in mia madre. Oltre a ciò non mi pareva vero di mostrare a tutta quella mia parentela, che alla fine anche col proprio cervello e col proprio lavoro si poteva riuscire a farsi un po' di largo, senza necessità d'esser ciamberlano o scudiere.
Con tutto ciò, sfuggire totalmente all'ambiente del paese e della mia classe era impossibile.
Mio padre era nelle loro idee senza però esagerarle. Sollecito del mio avvenire, egli credeva potesse essermi utile l'attaccarmi in qualche modo alla corte. A vedere quanti cercano ora di farne parte, non fa meraviglia che egli allora lo credesse opportuno.
Fatto sta che un giorno mi propose di procurarmi un posto di gentiluomo di bocca.
Mi cadde il cuore in terra. Io a corte! e gentiluomo proprio di bocca (che ha non so che ufficio sui piatti e le vivande), mi pareva una tal desolazione, che non mi ci potevo adattare. Dall'altra parte dir di no a mio padre, urtare alle sue idee, non ne avevo il coraggio; e difatti non l'ebbi, e dissi di sí. Ma lo dovetti dire con tale evidenza di ripugnanza, che la cosa andò fredda, e in appresso venne dimenticata, e non se ne parlò piú.
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