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      La mia entrata in corte doveva accadere sotto altra forma, e per altre cagioni ventun'anno piú tardi.
      Quello però che non potei evitare, fu d'andare a corte col mio quadro, e di presentarlo io stesso al re.
      Fra quadro e cornice era un peso discreto: ma siccome in fatto di belle arti, la corte nostra era ed è un po' arretrata, nessuno aveva avuta la pellegrina idea di preparare un cavalletto per posarvi su il quadro.
      Ammessi dov'era Carlo Felice, i due accoliti in abito nero, che non senza fatica portavano il quadro, convenne per necessità che rimanessero tenendolo ritto sulle braccia, mentre il re riceveva mio padre e me con qualche cortese espressione; e poi a poco a poco con tutto comodo volgeva gli occhi al quadro, e si veniva accostando per considerarlo meglio.
      Uno dei due portatori era un mio cameriere romano, grasso, di poca fibra: e siccome mai principe al mondo, per quanto buono, s'è incaricato del calcolo delle resistenze de' muscoli umani (degli equini, sí), neppure allora il re se ne dava pensiero. Veniva quindi guardando il quadro a tutto suo agio: ed io vedevo che il mio povero romano, gonfiato e rosso com'un polmone, co' goccioloni di sudore per il viso, balenava; e pensavo: "A momenti eccoti il quadro in capo al re, ed il re che m'esce dall'altra parte come i saltatori co' cerchi di carta." Davvero che andò ad un pelo che non finisse proprio cosí; ed io dovetti soccorrere le braccia stanche, finché vennero licenziati i portatori: e poco dopo venni licenziato anch'io.
      Entrando la state, il mio buon padre, contento assai de' fatti miei, mi disse che me n'andassi un po' al fresco; ed io feci un giro a Cormayeur per il San Bernardo, e qualche po' di Svizzera: ma pioveva sempre, faceva freddo; ed io avvezzo a sentirmi come il pesce nell'acqua sotto il sollione della campagna di Roma, mi pareva d'esser finito come Ulisse nel paese de' Cimmeri.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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