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      Un bel giorno poi mi vennero talmente a noia le pioggie, le nebbie, i monti e gli Svizzeri, che mi facevano pagare persino un respiro, ch'io gli mandai al diavolo di cuore e pel Sempione non mi fermai piú, finché non mi sentii scottare il cranio dal sole italiano.
      Giunto a Torino, mi vi trattenni qualche tempo. In fin de' conti ero venuto da Roma per stare coi miei e non per correr le poste.
      La morte di mio fratello Enrico, avvenuta un anno prima, stendeva ancora sulla famiglia un velo di tristezza. Già ho dati alcuni cenni sull'esistenza travagliata di quel bravo giovane. La lotta morale fra il desiderio d'una perfezione vagheggiata e la fralezza d'una natura nervosa, impressionabile, e quindi poco capace di costanti propositi, l'aveva condotto lentamente alla tomba. Mio padre confidente delle sue ansie, de' suoi sforzi, de' suoi scoraggiamenti, aveva dovuto assistere alla loro azione distruttiva, senza aver modo di farle contrasto.
      Io avevo trovato in esso un fondo di malinconia, ed una riserva ne' modi che non era sin qui stata nelle sue abitudini. Mio fratello maggiore, dopo un soggiorno a Parigi di alcuni anni, per dar campo che svanisse intanto l'impressione de' fatti del '21, era ritornato in famiglia.
      I suoi due figli fatti grandicelli erano cari ragazzi: il padre s'occupava d'istruirli e d'educarli collo zelo costante e continuo che ispira il senso del dovere. Le cose di casa, come si vede, andavano quietamente; ma pur troppo se il tempo, la riflessione, il senso morale consigliano la concordia ad opposti caratteri, e se nell'apparenza spesso l'ottengono, non bastano a creare quello che si suol dire il buon sangue: e senza questo, la convivenza può bensí esistere e durare; sarà un atto di virtú, sarà un'opera meritoria, utile; ma non sarà mai un piacere.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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