La conclusione è dunque che, se riuscissi a giovare al pubblico, non m'adopererei per un ingrato; mentre mi dà in gran copia quant'è in sua mano e piú del merito mio vero. Che infatti godo della stima pubblica piú che non meriterebbe la mia poca appariscenza politica; e ne nasce in me un obbligo verso la patria, che non avrei in una repubblica, o in un reggimento costituzionale.
Nella pura monarchia, chi non è in alto favore ha sempre modo di consolar l'amor proprio imputandone i raggiri cortigianeschi, e quell'aura pubblica sovraccennata lo persuade d'essere amato da' suoi concittadini. Egli può in tale circostanza (ma in questa sola) disgiungerli dal sovrano, e pensare che, se giova alla patria, essa non gli è ingrata e lo rimunera colla stima, coll'affetto.
Quando un certo numero di sudditi concorre nelle operazioni del governo, cessa distinzione siffatta: e Scipione ed Aristide non possono, se sono scartati, assolverne il popolo interamente. Potrei aggiungere una terza conclusione: cioè essere un bene sí seducente l'aura popolare che quasi dovrebbe riconoscenza agli emuli suoi chi, per li loro raggiri depresso, la viene ad ottenere. Ma tutta questa cicalata non può adattarsi a me che non provo ingratitudine nel sovrano; né ho da dolermi né di lui, né d'abbandono veruno. A lui nulla ho mai chiesto, né me ne posso pentire. Sento le ingiurie dell'età (54 anni), né ho mai avuto a dolermi che mancassero urti, o tarli morali, ad affrettarmi il logorio: non creder questa una frase d'umiltà: è verità pretta. Io non posso aver impiego che non porti con sé un carico vero e grave; e se sarebbe in chiunque una presunzione il credersi capace di guidare, di reggere le provincie e i regni, troppo maggiore sarebbe in me, che, gli anni di vigore consunti nella tristezza e fuor di speranza del riordinamento, mi trovo ora scarso di sapere, scarso di pratica e realmente impoverito di quell'altezza qualsiasi che potei avere dapprima.
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Scipione Aristide
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