I medici che consultai piú tardi mi dissero che di detta cura non avevo ombra di bisogno.
Mentre mi curavo, non potendo piú andare dal vero, studiavo in casa. M'ero dato a ripassare l'anatomia: e poi mi sentivo addosso una specie di ribollimento d'idee imperfettamente concette altre volte, ma non mai abbandonate, quantunque rimaste allo stato latente sotto gli studi dell'arte.
Mi sentivo una gran smania di scrivere; ma scrivere che? prosa, versi, storia, romanzi, poemi, lirica? Neppur io lo sapevo.
Non m'ero ancora accorto in quel tempo che salvo Dante, Petrarca, Ariosto, Manzoni e pochi altri i quali hanno fatto bene a scrivere versi - ed anche loro non tutti e non sempre; - quanto agli altri fanno molto meglio a non scriverne, perché in fatto di poeti, secondo me, non deve esistere il second'ordine. Tutto ciò che non è sublime è intollerabile. C'è chi pensa altrimenti, ma io la penso cosí.
Principiai dunque anch'io dai versi e da questo travaglio interno vennero fuori certe terzine, per deplorare le miserie dell'umanità. Se non nuovo, l'argomento era vasto. Molti anni dopo mostrai questi versi a Grossi, il quale dopo averli letti col piú vivo interesse, mi disse: - Hin propri minga bej! - Se allora avessi ancora avuto bisogno di guarire dall'affezione poetica, questa breve quanto limpida sentenza d'uno de' piú eletti ingegni d'Italia e de' miei piú cari amici, sarebbe stata una vera panacea. Ma non m'occorrevano piú cure quando ci conoscemmo a Milano, tre o quattr'anni dopo.
N'avrebbe però, a parer mio, ancora bisogno una buona metà del nostro stivale. È un gran che a pensare che il primo sboccio de' giovani dell'Italia meridionale è sempre un numero piú o meno importante di cosí detti versi! i quali in questa nostra civiltà del martello e della lima fanno proprio una curiosa figura!
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