Il buon Bellisomi non sapeva che il documento storico era farina mia. E confesso che il suo equivoco mi fece alquanto ringalluzzire. Il fatto sta che egli uscí, o venne tolto dall'ufficio di censore. Ma il libro correva l'Italia. Piglialo per la coda!
CAPITOLO XIII
Un incontro di questa fatta doveva avere per effetto immediato di mettermi indosso una gran voglia di pubblicare un altro romanzo, e cosí fu difatti. Come ho detto, m'ero stretto in grande amicizia con Grossi. Le nostre nature, i nostri umori si confacevano, ed egli mi fece animo ad intraprendere il mio nuovo lavoro. Oramai andavo sul velluto, e ci andavo con altra confidenza che non quando ancora m'avevo a formare un'idea sia di me, sia del pubblico. Presa la risoluzione, cominciai a cercare un argomento, che doveva, s'intende, essere tutto nel senso liberale italiano; sempre però tenendo la trafila della censura austriaca in prospettiva.
Prima d'entrare in altro, due parole di biografia del Grossi, amico raro, e della cui perdita nessuno dei suoi ha potuto mai darsi pace, ed io meno degli altri. Delle sue opere, del suo merito letterario non parlo. Le prime sono conosciute. il secondo è classificato come merita, e nulla oramai lo può oscurare. Ma dell'uomo parlerò, che valeva assai piú de' suoi versi, per quanto eccellenti. Tommaso Grossi era di Bellano, bello e grosso borgo in riva al Lario, allo sbocco della Val Sassina. Nasceva di gente onesta, ma povera. Un suo zio, curato di Treviglio, giansenista della scuola del Tamburini, prese pensiero di lui, lo mantenne a Milano alle scuole, poi a Pavia. All'Università cominciò ad aprirsegli la vena poetica, ma nel modo come s'apre ai valentuomini anco nell'adolescenza.
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