(*) Mi corre qui obbligo di un religioso tributo di amore e venerazione. In questo stesso anno 1838 ho perduta mia madre. Coloro che hanno avuto la bontà di leggere quanto io ne ho scritto precedentemente, sanno che donna era mia madre. Forse io non ne posso essere un buon giudice, un esatto apprezzatore: l'amavo, la adoravo tanto, che l'intelletto può avere smarrita la facoltà di farmene un criterio, che non pecchi di entusiasmo.
(*) Questa morte mi ha reso per qualche tempo inerte, stupido, senza desiderii fu uno di quelli strappamenti di viscere, de' quali al momento del dolore si mormora: "Me ne ricorderò finché vivo".
(*) Con lei è sparito per me dal mondo l'angelo tutelare, il legame della famiglia: sentivo che morta mia madre, dovevo mutar esistenza, o almeno modificarne profondamente le forme. Prima c'era chi pensava a me, ed io andavo dritto per la mia via, senza un pensiero al mondo; or che non c'era piú chi pensasse a me, bisognava ci pensassi io. Fu profondissimo il dolore che sentii per la morte del padre: se non che, dopo il padre restava la madre. Basta; de' dolori e lutti domestici siamo intesi che poco se ne dica: io li sento con un pudore dilicatezza che non mi permette di troppo
CAPITOLO XV
(*) Di ritorno a Milano ripigliai la mia vita di doppio lavoro: pittura e scrittura. Ma mi ci volle un po' di fatica: qualche mese di vacanza o di distrazione mi rendeva sempre pigro e poco atto a fare. Di piú dovetti spesso dimenticare il Niccolò de' Lapi per alcune gite fatte a Torino, per affari domestici. Ogni volta ch'io tornavo a Torino sempre piú spiccato m'appariva il confronto fra la vita torinese e la milanese. Quell'abuso di regolarità, di formalità, di distinzioni sociali, di gesuitismo; quella mancanza assoluta d'ogni sintomo di energia e di vita che m'opprimeva in Torino, non poteva essere compensato nemmeno dal piacere di rivedere tanti amici e parenti che v'avevo, e dall'incanto che piú o meno hanno gli oggetti, le mura, l'aria che vi han visto nascere.
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