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      Mi ci sentivo alla lettera soffocato. Ed io, un odiatore di professione dello straniero, lo dico colla confusione piú profonda, se volevo tirar il fiato, bisognava tornassi a Milano. E questo, perché? Per l'arte sottile colla quale le autorità austriache, intente esse medesime, forse, a farsi un buon letto in una città simpatica, ricca, grassa e allegra, sapevano ammorzare, ammorbidire, gli ordini viennesi e lasciare (dai fatti reali in fuori, ci s'intende) la piú ampia libertà ai Milanesi di brontolare, pigliare a scherzare coi pollini, dare le loro definitive sentenze non solo sullo spettacolo della Scala, ma altresí sulla politica: bastava solo non gridar troppo forte; ma con prudenza si poteva dir tutto. E al caffè Martini si parlava liberissimamente del Governo, della polizia, ecc.: ma occorre soggiungere che se nel frattempo compariva nella bottega o il signor Bolza, o il signor Galimberti, allora il tenor de' discorsi era subito radicalmente modificato.
      (*) Di piú il governo austriaco era forzatamente costretto fra tanti impiegati ad averne pur di italiani. Taluni di questi hanno, è vero, acquistato una triste celebrità per lo zelo col quale si mostrarono tedeschi. Ma v'erano molti altri che, sebbene desiderosi di fare il dover loro, lo facevano in modo da favorire piú che danneggiare i Milanesi: avevan conoscenze, avevano parentele, e questi son legami de' quali è difficile sciogliersi del tutto. Da questo complesso di circostanze scaturí un fatto strano ch'io qui rammento di volo: cioè che dal 1840 al 1845 vi furono in Milano taluni mesi di un Governo cosí mite, cosí poco terrorista, che fra tutti i piccoli Governi d'Italia non ve n'ha uno, che al paragone dell'austriaco non sia stato infinitamente piú orrendo.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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