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      Inutile dunque dire altro per farmi perdonare la prestezza colla quale appena toccato Torino, e fatto quel ch'avevo da fare, solevo partirne. C'era, ognun vede, anche la ragione delle mie dilette occupazioni.
      (*) Gli ultimi capitoli del Niccolò de' Lapi li ho scritti a sbalzi, con istenti gravi. Volevo finirlo. Da Torino, da Firenze m'andavano chiedendo quando questo benedetto Niccolò de' Lapi sarebbe per comparire. A Milano tutti m'assediavano colle istesse gentili seccature. Mi pareva d'esser in teatro, quando l'ora indicata è già trascorsa di cinque minuti, e la platea incomincia a far chiasso, e a dire "sicché? suonate!" E perciò a qualunque costo mi misi in mente di finirlo nel mese di marzo. Grossi era occupatissimo in quel tempo, e mi doleva d'annoiarlo colle mie seccature letterarie. Tuttavia potei afferrarlo piú d'una volta e averne buoni consigli, e, quel che piú importa, magnifici incoraggiamenti.
      (*) Ai tanti del marzo il Niccolò de' Lapi era finito. In que' giorni non ne capivo piú niente: sospettavo ora d'aver fatto una misera corbelleria, ora mi lusingavo d'aver fatto qualche cosa di buono. Rileggere il mio lavoro non osavo piú; anzi non l'avrei nemmeno potuto, perché in vari tentativi fatti non ne avevo ricavato che spavento e sfiducia: mi pareva che ci fosse tutto da cambiare e da correggere. C'era il cosí detto precedente dell'Ettore Fieramosca. Ma molti anni n'erano corsi! E chi se ne ricordava piú?
      (*) Quando un pittore presenta al pubblico un suo quadro nel quale conosce molte parti mal eseguite, trova cento modi per soccorrere il suo povero amor proprio in pericolo. Ora il quadro non ha vernice, e s'insinua con garbo che quando l'abbia, farà tutt'altra figura: ora si dà la colpa alla luce che batte a rovescio: ora la cornice non è adattata: ora è troppo alto, ora troppo basso, o è sbattuto dai riflessi degli oggetti circonvicini.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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