Da Ancona seguitai la mia via per le varie città di Romagna, colle solite fermate, i soliti discorsi, la solita facilità nel persuadere; ma siccome alla fine persuadere tutti è impossibile, dovetti persuadermi che qualcuna delle solite imprese si preparava.
Forse riuscii a circoscriverla in un ristretto numero d'incorreggibili, che un mese dopo a Rimini ed alle Fratte o Grotte che sia, eseguirono quel moto che mandò un'altra infornata di poveri giovani a soffrire senza frutto in prigione o in esilio.
Girata la Romagna, per la Terra del Sole, Rocca San Casciano e Dicomano, traversai l'Appennino ed arrivai a Firenze. In questa città ed in Toscana mi trattenni poco; trovai l'amico accennato della legione romana, e dell'opportunità che i soldati piemontesi imitassero il suo giudizioso esempio: e coll'impressione fresca del buon senso che sta di casa in certi cervelli italiani, per Genova mi condussi a Torino.
Qui cominciava il buono: ed era giunto il momento, che il sonaglio essendo pronto, bisognava attaccarlo!
La mia parte non era facile. Non avendo avuto dal Re nessunissimo incarico di fare quel viaggio e quell'inchiesta, ed essendo invece stata tutta roba mia; l'essere ora accolto bene da lui, ovvero posto fuor dell'uscio di malagrazia, tutto dipendeva dal grado di fiducia ch'egli riponeva in me, non meno che dalla sua opinione, se fosse bene o no lo scoprirsi: e tutto questo io non lo potevo sapere.
Domandai un'udienza, e l'ebbi presto, ciò che mi parve di buon augurio. L'ebbi, come usava Carlo Alberto, alle sei della mattina, che in quella stagione voleva dire prima di giorno; ed all'ora stabilita entrai nel palazzo reale, tutto desto e illuminato, mentre la città ancora dormiva; e ci entrai col cuore che mi batteva.
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