Molti piú arditi non contenti d'aver salvato le persone, vogliono salvar l'avere, le biade, le speranze di tutto l'anno. Si spingono avanti, entrano, s'ascondono tra il fumo e le faville: tutti tremano di non vederli piú uscire, gli affrettano colle grida, pur guardando al tetto, che, consumate ormai le travi, già accenna di cadere.
Ricompaiono alla fine co' panni avvampati, co' capelli arsi, ma nessuno gravemente offeso nella persona, nessuno colle mani vuote: chi ha un involto di biancheria, chi un sacco, chi strascina un cofano, chi un letto, chi tagliato il capestro che attaccava qualche bestia alla mangiatoia la caccia all'aperto. Ma già il tetto rovina sui soffitti, li sfonda e tutto piomba in un fasciume ardente sul terreno: il fuoco si raddoppia e riman padrone di quanto è rimasto in casa, che pur troppo è la parte maggiore; il temporale, i tuoni, il rovescio d'acqua seguita intanto: seguitano i pianti, le grida, il sonar a stormo, e quella povera gente passa tutta la notte travagliandosi in mille modi per vincere tanti perversi accidenti.
Venuta finalmente la mattina, spento il fuoco, ricomposte un poco le cose, si pensa a valutare i danni. Sei case sono arse affatto colla maggior parte del mobile e delle biade che contenevano: e sei famiglie si trovano senza tetto, senza quasi un panno per coprirsi, né cibo, né letto, né attrezzi per lavorar la terra.
Un paio di mesi dopo l'incendio queste sei famiglie avean di nuovo e casa e tetto e vettovaglie e marre e vanghe e quanto potea loro bisognare. Forse stavan meglio di prima. E sapete per mano di chi la Provvidenza avea loro restituito il ben tolto? Per mano de' poveretti vicini, i quali in un anno di carestia, com'è stato il corrente, rimessi appena della fame dell'inverno, hanno però tutti secondo il potere donato qualche cosa: chi denari, chi roba, chi un po' di grano, chi un po' di vino, chi qualche braccio di tela, chi un attrezzo, chi un altro.
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Provvidenza
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