Ricevuti, adunque, i due schiavi, e pagatone il prezzo, seguiron questi il loro nuovo padrone con quell'allegrezza che si può immaginare; il quale, partendo di là seguito da un traino di falconieri, cacciatori e scudieri, neppur si curò di mandare al valvassore del castello una cortese ambasciata, o almeno una parola di ringraziamento.
Questi fatti erano accaduti alcuni anni prima dell'epoca ove incomincia il nostro racconto; ed in questo tempo Ardengo era stato messo ai servigi della casa di Milano, ed il figliuolo lavorava in una grancia, lontana poche miglia dalla città, ove Azzone faceva dissodare vasti terreni. Secondo il costume di cui abbiam fatto cenno nelle prime pagine di questo capitolo, aveva ottenuto dall'abate di Chiaravalle un suo monaco, esperto agricoltore, per granciere, detto frate Brisiano; quell'istesso che lasciammo con Ardengo, impacciati entrambi sulle ghiaie del Lambro.
Ma quantunque soli, di notte, e fuor di strada, non son poi ridotti tanto a mal termine, che non possiamo, prima di pensare a loro, dir quattro altre parole sul fatto di Lanfranco; il quale, in questi pochi anni, trovandosi assai umanamente trattato, s'era fatto piú che mai bello e gagliardo, e, in quel secolo stesso di uomini fortissimi, era tenuto un prodigio di robustezza.
Questa robustezza appunto era stata la cagione che avea mosso Azzone a mandare il giovane a quel dissodamento: e certo le sue braccia poteano, senza scomporsi, far il lavoro di sei. Ma se faceva pel padrone tenerlo a quell'esercizio, non faceva per l'ultimo discendente d'Elio Vopisco, l'aver tutto il giorno in mano la marra: e quanto l'ardito giovane si rodesse di consumar la sua vita in tanta viltà, con qual'ansia d'invidia vedesse i suoi coetanei liberi trattar l'armi, e correr la via della fortuna; si può argomentare soltanto dal modo col quale avea espressa ad Azzone la sua gratitudine quando questi gli promise riunirlo col padre.
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