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      Chi, giudicando delle cose d'allora coll'esempio delle presenti, si meravigliasse che, piú di Federigo imperatore, mettessero spavento i soli Milanesi, e che questi tenessero di lui poco conto, deve sapere che in quell'età si credeva bensí, ciò che non si crede oggigiorno, che l'imperatore fosse vero e legittimo signore delle città lombarde, ma si teneva ugualmente per fermo che la sua autorità fosse circoscritta da certi limiti(69) e che, ov'egli li volesse varcare, s'avesse pieno diritto d'opporsegli colla forza.
      Questi diritti dell'Impero e delle città non erano, però, tanto chiaramente definiti (e spesso venivano confusi ad arte dalle parti) che non ne nascessero dispareri, contrasti e guerre alla fine, che, dopo molti mali, terminavano con accordi, dai quali si conosce che neppur l'imperatore stesso, gelosissimo della sua autorità, non tacciava perciò i suoi sudditi di ribellione.
      Fra gli altri diritti, le città aveano quello di farsi guerra reciproca quando loro piacesse. Se il piú debole ricorreva per aiuti all'imperatore, questi, volendo anche a suo potere soccorrerla, arrivava sempre, come si suol dire, tre dí dopo la rotta. Per far giungere alla Corte un legato, ed anco un semplice corriere, ci volean mesi: ci volea piú d'un anno, soventi, prima che l'imperatore avesse potuto radunar l'oste, varcare le Alpi e calar in Lombardia. Se ai Lodigiani, dunque, mettesse conto irritare un nemico potente, distante dalla loro città sole venti miglia, confidando in cotali aiuti, è facile giudicarlo.
      Ma sorgeva finalmente anco per loro il giorno della speranza. Alla festa di Pentecoste di quest'anno, Federigo aveva bandita l'oste contro i Milanesi, ordinando che facesse la massa in Ulma il dí di Pasqua dell'anno vegnente; e si può pensare quanto fosse giunta gradita ai Lodigiani questa novella, portata da Ottone, Conte palatino del Reno, e da Rainaldo, regio cancelliere.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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